Impressioni di novembre. Viaggio in America durante le elezioni presidenziali

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di Matteo Sestu

Filadelfia. Città progressista, fulcro culturale di un’America che ho capito essere il luogo degli eccessi: Chomsky è professore in una delle Università più prestigiose del mondo vs Dio benedica le nostre truppe; non puoi bere una birra per strada però puoi tenere una magnum sul cruscotto. A Filadelfia trovi librerie di seconda mano, gallerie d’arte, musei, artigianato locale, negozi ecosostenibili che promuovono il chilometro zero. Se percorri le vie del centro storico sembra di stare in una cittadina inglese. Pulita, ordinata, i mattoni rossi, le case a due-tre livelli, il lastricato stretto tra due fila di abitazioni a schiera. Poi alzi lo sguardo e scorgi i grattacieli. Filadelfia è una cittá universitaria, vivace ma non caotica. Decima cittá negli USA per qualitá della vita, cinquantasettesima nel mondo, secondo Lonely Planet. Filadelfia è una cittá istruita, dove l’82% della popolazione ha un diploma di scuola superiore e un quarto ha in tasca una laurea. Cittá multirazziale, in cui ci sono tanti bianchi quanti neri e gli ispanici sono una fetta importante della popolazione. E multiculturale, con tanti stranieri residenti. Cittá che ha saputo diminuire il numero dei crimini levando le armi dalle strade e allentando la repressione. Filadelfia cittá progressista, gayfriendly, bikefriendly, youthfriendly, touristfriendly. A Filadelfia Hillary Clinton conquista l’82,4% dei consensi e relega Donald Trump ad un misero 15%. Ma appena si esce dai confini della cittá le percentuali si capovolgono. Nel resto della Pennsylvania è Trump a trionfare, tant’è che il risultato della metropoli non è sufficiente per consegnare i 20 voti dei grandi elettori ai Democratici. E così è successo negli altri Stati. Nello stato di New York, democratico per tradizione, vince la Clinton. Ma è interessante dare un’occhiata alla mappa del voto. La maggior parte delle contee è rossa. Nel New Jersey, nel Michigan, in Florida come in Virginia o in Nevada, il riscontro è lo stesso: i piccoli centri, le campagne, i sobborghi, le periferie hanno votato Trump. Anche negli stati storicamente democratici. Nella prateria han preferito far diventare l’America grande di nuovo, piuttosto che prendersi il sicuro, il garantito. Avrei voluto seguire lo spoglio in un quartier generale dei democratici qui nel centro di Filadelfia, ma alla fine sono rimasto in ostello, assieme ad altri ragazzi, tendenzialmente piú piccoli di me di qualche anno, americani e non. E probabilmente questo è stato persino un punto di osservazione migliore per farmi una idea di cosa sia successo negli Stati Uniti in queste elezioni. E provo qui a raccontarlo.

Elettori in fila per il voto in un seggio nel centro storico di Filadelfia
Elettori in fila per il voto in un seggio nel centro storico di Filadelfia

L’ostello ospita ragazzi e ragazze europei, francesi, belgi, inglesi. Io son l’unico italiano. Ci sono due australiani, qualcuno dall’Asia, piú solitario e silenzioso, come stereotipo vuole. Qualche americano in giro per lavoro. Il resto sono ragazzi locali. Lavorano all’ostello o sono loro amici, e si incontrano qui, nella living room con il televisore, il divano a U intorno che delimita un’area soggiorno, una cucina e un grande tavolo. Sono bianchi e sono neri. C’è anche una ragazza di origine portoricana che qui fa le pulizie, tanto per non tradire ancora lo stereotipo. Alcuni, come me, sono seduti nel divano, a seguire gli exit poll, i risultati che arrivano dagli stati orientali, ad osservare col passare del tempo, increduli, l’avanzata furiosa di Trump. Negli stati chiave è avanti dappertutto, pure in Pennsylvania, dove i primi risultati erano a favore dei democratici: inesorabilmente recupera il margine sulla Clinton, dando il colpo di grazia ad una situazione che da subito è apparsa spaventosa. Quando la vittoria del magnate sembra ormai sicura, una ragazza, con l’adesivo I am with her sulla felpa, inizia a piangere. Anche se sono dall’altra parte del divano, anche se lei non lo sa, le sono molto vicino. Perchè la capisco, perchè anche io ho vissuto queste esperienze e provato questi sentimenti. Altri peró sono intorno al tavolo, progettano di uscire. Serata salsa in un locale qua vicino, chiedono se vogliamo unirci. ‘Last call, last call for salsa!!’, dicono. No, quelli sul divano non si muovono. Non li degnano nemmeno di troppa attenzione. Poi tornano dalla salsa, dopo poco, con i cartoni di pizza in mano, mangiano, parlano e ridono, non sono interessati a quello che invece tiene noi incollati al televisore. Forse non c’è nulla di strano. Nelle società occidentali abbiamo da tempo osservato il disinteresse delle giovani generazioni nei confronti della politica. C’è un punto, peró. Quelli intorno al tavolo non sono stranieri. Non sono ospiti dell’ostello. E ce n’è un altro, ancora piú significativo. Quelli seduti sul divano sono tutti bianchi.

Un commentatore sulla ABC sostiene che la Clinton abbia sbagliato la campagna comunicativa. Troppi slogan, dice. Campagna confusa. Guardate invece Trump, uno slogan unico, incisivo, definitivo: far tornare l’America grande di nuovo. Io non so se la campagna comunicativa della Clinton sia stata buona o cattiva, non sono stato qui a lungo e non ho seguito in modo approfondito la campagna elettorale per poter esprimere un giudizio. Forse non sarei comunque all’altezza per farlo. A me peró sembra che lei non abbia sbagliato nel prevedere a chi dovesse rivolgere il suo appello. Tanti interlocutori, tanti argomenti. Sapeva di dover convincere. Ed è forse questo il motivo dei tanti slogan. I am with her, la prima presidente donna e sapeva che il voto femminile sarebbe stato determinante. Stronger together, perchè si percepiva lo scollamento e la divisione nel Paese e faceva appello all’unità in contrasto con i messaggi divisivi e di rottura di Trump. Rebuild the middle class, gli appelli ai giovani, alle minoranze. I Democratici, compresi Obama e la moglie Michelle, si sono rivolti a loro perchè sapevano che avrebbero rivestito un ruolo fondamentale e perchè erano consapevoli che l’entusiasmo di questi gruppi sociali era di gran lunga minore rispetto alle due presidenziali precedenti con Obama candidato. Lo hanno fatto anche qui a Filadelfia davanti a me e a decine di migliaia di persone per la chiusura della campagna elettorale, quando pareva che tutto dovesse andare per il verso giusto. Parentesi. Michelle Obama è una diva, la amano tutti e tutte e a parer mio fa l’intervento più bello della serata. Chiusa parentesi. Avevano ragione negli obiettivi. Non li hanno centrati. Le periferie, geografiche e non, non si sono sentite coinvolte. Molti americani che sarebbero dovuti essere convinti dagli argomenti dei Democrats hanno votato Trump o al piú non sono andati a votare. I neri sono rimasti attorno al tavolo dell’ostello. Segregati attorno al tavolo dell’ostello. Lontani dal divano della politica.

Flash mob dei sostenitori di Hillary Clinton al Reading Terminal Market, un mercato di Filadelfia
Flash mob dei sostenitori di Hillary Clinton al Reading Terminal Market, un mercato di Filadelfia

Ora, io vorrei spezzare una lancia a favore del lavoro di Obama durante la sua presidenza. L’Obama Care forse non si è rivelato uno strumento all’altezza dei buoni propositi, il suo impegno contro la diffusione delle armi e il potere delle multinazionali alimentari non ha dato molti frutti, ma oltre ad essere stato il primo presidente nero degli Stati Uniti, che di per sè è giá un risultato, le sue politiche di investimento pubblico hanno trascinato fuori dalla crisi il Paese (al contrario di quanto successo in Europa), hanno dato indiscutibilmente una svolta ecologica alla produzione industriale, hanno fatto ripartire le industrie dell’auto, diminuito notevolmente la disoccupazione, imposto un livello di crescita che non si registrava dagli anni ‘90, quando alla Casa Bianca c’era un altro Clinton, come lo stesso Obama amava ripetere nei suoi interventi. Indiscutibile il suo impegno per le comunitá LGBT e per i diritti civili. E allora perchè Francis, omosessuale, nero, una delle persone più simpatiche e più divertenti con le quali io abbia avuto a che fare per tutta la mia permanenza negli Stati Uniti, è intorno al tavolo?

Il giorno dopo le elezioni ho in programma di lasciare Filadelfia per New York. Ho il bus nel primo pomeriggio e in tarda mattinata faccio orario sul divano dell’ostello. Alla televisione c’è Kelly, conduttrice di un seguito talk show sulla WABC-TV, che ovviamente interloquisce con alcuni ospiti sul risultato elettorale. Ad un certo punto, per introdurre un nuovo argomento, chiede al pubblico se ne ha abbastanza di sentire parlare di politica. A Francis, che passa lo straccio sui mobili della cucina vestito con degli inguardabili leggins colorati, esce di bocca uno “yes”.

A Francis l’irriconoscente, esce di bocca “yes”. Mentre lui si divertiva per i pub, mangiava donuts e beveva caffè lunghi, coloro che lo vorrebbero vedere morto sotto un treno perchè nero e per di piú omosessuale, nelle campagne della Virginia stavano convincendo gli amici a votare per Trump perchè dove arriveremo di questo passo dopo un presidente nero, pure farci comandare da una donna no (questo ultimo è in realtá uno degli argomenti con cui Michael Moore sull’Huffington Post prima delle elezioni aveva predetto la vittoria di Trump. Ne consiglio la lettura perchè credo sia illuminante). E invece Francis non ha mosso un dito. Non ha mosso un dito per contrastare i bigotti, i conservatori, gli omofobi. Non ha mosso un dito per sostenere coloro che hanno invece sostenuto la sua causa. Non solo, non si è neppure degnato di andare a votare.

Irriconoscente e miserabile.

Ad un certo punto Alyce si avvicina con l’agilitá di una pantera, mette la mano sulle mie ginocchia e mi chiede, con tanto di occhi dolci, se puó mangiare un po’ del mio formaggio. Rispondo di si prima ancora che il mio cervello elabori la sua strategia persuasiva. Lei infatti è stupita dalla facilità con cui è riuscita ad estorcermi la risposta positiva. Se ne va verso il frigo, lo apre e prende la busta con dentro un caprino e un vaccino che ho comprato al mercato dei produttori locali qui a Filadelfia e che le ho fatto assaggiare il giorno prima. Alyce è di Filadelfia. Lavora all’ostello. Sono arrivato io, dalla Sardegna, che neppure sa dov’è, a dirle che a cinque isolati da qui puó avere accesso ad un prodotto ottimo, buono, locale. Alyce scopre oggi che esiste un formaggio diverso dal cheddar squallido usato da McDonalds o Burger King. Alyce non è consapevole di dove vive, di cosa le offre la peculiaritá di Filadelfia. Alyce, vittima della cultura del consumo globale e di massa, crede che il suo intorno sia uguale a quello che troverebbe a Seattle o a New Orleans.

Paul Signac. Notre-Dame-de-la-Garde (La Bonne-Mère). Opera puntinista esposta al Metropolitan di New York
Paul Signac. Notre-Dame-de-la-Garde (La Bonne-Mère). Opera puntinista esposta al Metropolitan di New York

Il famoso sociologo Zygmunt Bauman sostiene che nel mondo contemporaneo il tempo non è percepito come una progressione continua di intervalli. Come in un’opera puntinista la figura complessiva è determinata da un insieme discontinuo di tratti, cosí il tempo è un insieme di istanti discontinui, separati gli uni dagli altri. Ció significa che viene stravolta anche la percezione che ad ogni azione corrisponde una reazione, che ogni causa ha un suo effetto e che questo meccanismo si propaghi nel tempo. Francis in questo momento mangia Pizza Hut e va a ballare la salsa. Il suo istante è questo. Puó essere che Francis, allora, non si renda conto delle conseguenze per sè che avrebbe la vittoria di Trump? Non percepisce la generazione di un effetto dovuto al suo comportamento? Non qui, non ora, non vicino. Francis non percepisce perchè dovrebbe quantomeno votare per Hillary Clinton. Non ritiene gli sforzi fatti dal suo partito tali per cui possa meritarsi il sostegno? Francis probabilmente non conosce quegli sforzi perchè quegli sforzi non appartengono al suo istante. Non vede nessi tra cause e effetti. Francis è irriconoscente perchè non è consapevole?

Sul bus che mi porta a New York attraverso le campagne del New Jersey. Tra le querce e gli aceri arancioni si intravedono delle case isolate. Sull’interstate superiamo centinaia di camion carichi di merci, ci lasciamo alle spalle aree di sosta e capannoni chilometrici con file interminabili di rimorchi. Piove. Attraversiamo una zona industriale, arriviamo alla bocca dell’Hudson. Davanti agli occhi ho un porto immenso, delle strutture enormi, gru, camion, treni, navi da carico. Volumi, quantitá, per me inimmaginabili fino ad allora. Ad un certo punto dal cielo grigio si scorgono i profili dei grattacieli di Manhattan, con migliaia di piccole macchie gialle, le luci. È affascinante, lo ammetto, e penso di non aver provato mai nulla di simile alla vista di una città. Un fascino che deve aver meravigliato i milioni di italiani, cinesi, irlandesi che hanno lasciato le loro terre più di qualche anno fa.

Superiamo ancora un camion e mi chiedo cosa abbia votato chi è seduto lí alla sua guida. Per non tradire anche io lo stereotipo, me lo immagino biondo, grosso e coi baffoni. Ha davanti gli stessi palazzi che vedo io. Probabilmente li vede tutti i giorni. Mi chiedo se percepisca o abbia mai percepito quel fascino.

Diciamocela tutta, Francis sará pure irriconoscente e inconsapevole, ma non è assolutamente uno stupido. E se sulle questioni dei diritti civili possono esserci stati dei passi in avanti, il motivo è che il fatto che due donne o due uomini possano baciarsi non intacca nessun patrimonio finanziario. Vedo centinaia di grattacieli. Ma non entrerò in nessuno di questi. Sono fortezze. Sono inaccessibili, loro e tutto quello che rappresentano. E come me, è molto probabile che Francis e il mio camionista, che li hanno di fronte tutti i giorni, non ci siano mai entrati e mai ci entreranno.

L’elezione di Trump è una lezione per tutti noi occidentali, che, se prestiamo attenzione, possiamo osservare in ciascuno dei nostri paesi di provenienza dei parallelismi con quanto successo negli Stati Uniti. La sconfitta di Hillary Clinton è da una parte la sconfitta della credibilità di tutti i grandi partiti di ispirazione progressista o socialdemocratica. Dall’altra è un grido scomposto di classi sociali scomposte che si sentono escluse. Trump si è offerto come una bomba da scagliare contro il potere. Patetico, visto che egli stesso è parte importante di potere capitalista. Però aveva contro tutti. I suoi stessi colleghi di partito. Quelli in giacca e cravatta. E’ sembrata un’ottima bomba. E per questo ha vinto.

Del resto, gli esclusi, a chi si dovrebbero rivolgere?

Ad un partito socialdemocratico che ha disconnesso qualsiasi tipo di rapporto con elettori, iscritti, sedi e sezioni locali? Che ha accettato, a volte per soddisfare interessi individuali, a volte per cercare consensi a destra, a volte per disperazione, compromessi al ribasso con i grandi poteri che detengono i capitali? Che ha accettato la continua riduzione degli spazi di discussione e confronto popolari e democratici? Questi partiti sono incapaci di modificare l’esistente perché ormai sono definitivamente schierati, chi del tutto, chi quasi, chi con l’idea di cedere qualcosa per difendere qualche vecchia conquista sociale, con l’ideologia del capitale e con le poche famiglie nel mondo che la governano. I veri padroni del mondo.

Essi rimangono nascosti, non vengono percepiti come nemici, anzi spesso rappresentano esempi positivi, stanno fuori dalla bagarre politica. Sono in grado però di determinare chi deve vincere le elezioni. E se sbagliano cavallo sono abilissimi a circuire l’outsider per farlo passare al lato oscuro della forza o per metterlo all’angolo. Vogliono sempre di più e cercano di abbattere ogni possibile ostacolo, anche piccolo, sul loro inesorabile cammino. Per questo vogliono ridurre sempre di più gli spazi di intervento popolare. Obama avrebbe dovuto ridimensionare ma è stato ridimensionato. Non è stata eletta la Clinton che ci avrebbe comunque garantito su molti fronti? Ne abbiamo eletto direttamente uno dei nostri, che sarà forse da educare un pochino, ma vedrai che alla fine farà il bravo.

Ora, chi è consapevole di questo?

E’ una piccola minoranza, arriva spesso dalla classe media, fa a volte parte di piccoli partiti di sinistra che hanno una ininfluente rappresentanza nei parlamenti. Come me.

Dall’Italia il leader del mio (ex) partito Nicola Fratoianni, sull’Huffington Post, scrive un articolo dal titolo “Clinton, la sinistra che fa la destra perde” e dal contenuto facilmente prevedibile. E noi, però? Chi ci vota? Chi rappresentiamo? Quali risultati abbiamo ottenuto? Quali strategie abbiamo messo in campo? I nostri elettori sono professori, impiegati di banca, dipendenti pubblici. Una classe media che, in un periodo di crisi profonda, porta a casa uno stipendio, magari, sì, vede arrivare sempre meno fondi nelle scuole, nel sociale, è preoccupata, è arrabbiata, ma, tutto sommato, se la cava che al governo ci sia Renzi, Grillo o Salvini. Il nostro nemico è ora il PD, la sua guida renziana. Lo accusiamo di essere un partito di destra, asservito ai poteri forti. E poi mangiamo al McDonalds. Ci irritiamo con chi nelle periferie delle grandi città tuona contro i migranti ma da quelle periferie siamo lontani. Non ci conoscono. Non le conosciamo. Mi vien da dire che le snobbiamo. Guardiamo dall’alto verso il basso chi ha il televisore su Canale 5. Non prendiamo un voto dalle persone che ci proponiamo di rappresentare. Anche noi abbiamo rifiutato l’organizzazione sociale, la vita nelle sezioni. Era un retaggio. Una nostalgia. Ma la sinistra o è sociale o non è. E noi, nella prassi, siamo caduti a destra. Non siamo credibili. Siamo meno credibili dei partiti populisti, dei partiti di destra, dei partiti di sinistra che fanno la destra.

Gli esclusi non si rivolgono neppure a noi. In queste elezioni americane sarebbe un errore non sentirsi coinvolti. La vittoria di Trump è uno schiaffo anche per noi perché ci dice qual è la tipologia di interlocutore al quale gli esclusi si stanno rivolgendo.

Andy Warhol. Campbell's Soup Cans. Esposto al Moma di New York
Andy Warhol. Campbell’s Soup Cans. Esposto al Moma di New York

Rimango quattro giorni a New York. Diverse ore le passerò dentro i musei, a fare incetta di forme e colori che fanno bene. Le lattine in serie di Warhol raccontano tutto ciò che ho detto finora. In tutto il Paese si moltiplicano manifestazioni di protesta per l’elezione di Trump. Ne trovo una a New York l’ultima sera prima della partenza, davanti al Trump International Hotel. Sono in sei. Protestano ma non si sa con quale fine. Trump è presidente per esito delle elezioni democratiche. Davanti ci sono decine di macchine della polizia, a protezione di un palazzo alto 178 metri. Sono l’immagine della sproporzione delle forze nella battaglia.